Il vino (s)fruttato
Non di rado, alla richiesta di un buon calice di vino, ci viene posta la fatidica domanda: “Secco o fruttato?”
Questa domanda evidenzia una difficoltà di comunicazione tra l’operatore del settore e il cliente, spesso frutto di una mancata formazione (o meglio, informazione) da entrambe le parti.
Chiariamo subito questo aspetto: non esiste un dualismo secco-fruttato nel mondo del vino.
Esiste una terminologia usata nelle associazioni di categoria che viene scherzosamente definita iniziatica perché usata quasi esclusivamente dagli operatori del settore in degustazione.
Dall’altra parte invece sono gli stessi sommelier e degustatori che presentano e pubblicizzano il vino con descrizioni romanzate al limite del giullaresco.
Come sempre a farne le spese è il consumatore finale che deve districarsi in un ginepraio di termini ambigui e fuorvianti.
Cerchiamo di fare chiarezza: scegliere un vino secco o fruttato sarebbe come scegliere un paio di scarpe da ginnastica o nere.
Il termine secco è una qualità gustativa: si riferisce alla quantità di zuccheri presenti in una determinata bottiglia e viene misurata in grammi/litro.
La stragrande maggioranza dei vini presenti sulle nostre tavole sono secchi per definizione perché contengono un residuo zuccherino che non supera i 4 grammi per litro: sono secchi i vari Chianti,
Barolo, Verdicchio dei Castelli di Jesi, Cerasuolo di Vittoria, Aglianico del Vulture, ecc…
Se il tenore zuccherino si colloca invece tra i 4 e i 12g/l parliamo di vini abboccati, una tipologia che si contraddistingue per la piacevolezza di beva e una percezione di dolcezza più marcata.
Un esempio su tutti è il vino novello, ottimo se sorseggiato con le caldarroste e in buona compagnia.
Decisamente più percettibile sarà la dolcezza in un vino amabile la cui componente zuccherina può raggiungere i 45 grammi per litro: parliamo di vini dalle fortune alterne che non di rado ci fanno storcere il naso, spesso snobbati perché relegati negli scaffali più bassi dei supermercati.
Sono vini straordinari se abbinati a piccola pasticceria o biscotti da tè; ottime interpretazioni di vino abboccato le troviamo nella zona del Circeo e di Frascati oppure in Emilia Romagna con il Lambrusco e l’Albana, tanto per fare qualche esempio.
Superata la soglia dei 45g/l si parla invece di vino dolce, un’altra categoria di vino spesso sottovalutata ma difficilissima da realizzare per via dei costi, della resa e del ricercato equilibrio del prodotto finale: ne sono esempi illustri il Picolit, il Sagrantino Passito e il Passito di Pantelleria da uve moscato.
Il termine fruttato descrive invece una caratteristica olfattiva del vino, un prodotto derivato dalla fermentazione controllata dell’uva che – guardacaso!- è un frutto.
Le caratteristiche olfattive di base che possiamo riconoscere in un vino sono il fruttato e il floreale: sentori di agrumi e fiori bianchi saranno facilmente percettibili in un calice di vino bianco giovane, mentre un vino rosso maturo ci offrirà delle nuances di frutta in confettura e pot-pourri.
Vegetale, vinoso e fragrante sono aggettivi che si usano per descrivere rispettivamente i vini giovani con una discreta connotazione erbacea (come i sauvignon blanc o i cabernet franc giovani), rossi giovani e freschi e vini bianchi o spumanti con una spiccata componente floreale o riconducibile al pane appena sfornato (fragrante, per l’appunto).
Il termine minerale riconduce a sensazioni olfattive di sapidità o materiche (pietra focaia, ardesia, grafite, salgemma… ) ed è una caratteristica di alcuni vitigni coltivati in specifiche regioni come il Pouilly Fumé della Loira o alcuni Etna Dop o Salina Igp in Sicilia.
Speziato ed etereo sono profumi che indicano vini evoluti o elevati in legno: il ventaglio aromatico in questi casi spazia dal profumo di vaniglia e cannella al pepe nero, dallo iodio alla ceralacca, dal tabacco al caffè e così via.